Una fondazione formalmente illegale


Geo Pistarino - La doppia fondazione di Alessandria (1168 – 1183)
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lessandria nasce dunque come città illegale: illegale sotto diversi aspetti. È illegale nei confronti dell’Impero, perché è fondazione non autorizzata né istituita con beneplacito e per privilegio della suprema autorità universale, a cui è riservato il diritto di configurare legalmente ogni entità politico-territoriale nell’ambito della propria potestà. Illegale rispetto al marchesato monferrino, perché edificata nella sua definizione territoriale e configuratasi come Comune al di fuori delle strutture amministrative dello Stato, fosse pure lo Stato feudale. Illegale anche nei confronti dei marchesi del Bosco, il cui ambito di proprietà o possesso la nuova città ha parzialmente occupato, senza possederne i titoli o la disponibilità e senza neppure chiedere il beneplacito sotto forma di concessione d’uso. Illegale altresì per la figura giuridica dei suoi abitanti, che non godono di qualifica, legalmente valida, di cives a pieno titolo, e non possiedono quindi, per lo meno in via teorica, tutti gli attributi che tale qualifica comporta: ad esempio, nel settore professionale degli abitanti, la carriera notarile; nel quadro pubblico, la possibilità di eventuali accordi intercomunali con altre città, perché questi potrebbero venire sconfessati dall’altra parte contraente, quando le tornasse comodo, né gli alessandrini avrebbero la possibilità di avanzare ricorso all’Impero per ottenere giustizia. Illegale infine anche dal punto di vista ecclesiastico perché la città non può proporsi come corpo unico di fedeli nei riguardi della Sede Apostolica, essendo composta da gruppi civici, ciascuno dei quali conserva la propria situazione pievana, parrocchiale e diocesana, a seconda dei luoghi di provenienza, sicché non sarebbe in grado di agire presso le autorità contermini e la stessa Sede romana quale espressione di collettività.

Ricordiamo che la Sede Apostolica è dibattuta tra le due linee papali, instauratesi nel 1159, quando, alla morte di Adriano IV, avvenuta ad Anagni il 1° settembre, vennero eletti nel medesimo giorno, 7 settembre, sia, Alessandro III, papa legittimo, sia Vittore V, antipapa federiciano. Se per noi, immersi nella distanza della storia e confortati dalla tradizione papale romana, è abbastanza chiaro il giudizio di legittimità o illegittimità tra le due professioni di obbedienza, ciò non risultava altrettanto semplice e chiaro per gli uomini del tempo, per di più soggetti alle teorie romaniste di Federico Barbarossa ed ai suoi richiami all’autorità imperiale del periodo classico, echeggiati da Carlo Magno e sempre validi nell’Impero di Costantinopoli, circa la facoltà d’intervento del Basileus nelle stesse elezioni episcopali, oltre che nei dibattiti sulle tematiche della fede.

Gli stessi vescovi italiani furono divisi tra l’una e l’altra obbedienza, tra Alessandro III, da un lato, e, dall’altro, Vittore V, poi, alla morte di quest’ultimo (20 aprile 1164), Pasquale III, alla sua morte (20 settembre 1168), Callisto III che abdicò il 29 agosto 1178, infine, Innocenzo III, deposto nel gennaio del 1180. E fino alla sconfitta di Federico a Legnano nel 1176 il prestigio e l’autorità degli antipapi furono rilevanti in Italia durante le presenze dell’imperatore nella penisola.

Pertanto se la fondazione della civitas nova potè essere seguita e favorita entro un certo limite dal papa legittimo, Alessandro III, fautore della Lega Lombarda, non lo fu dall’antipapa, Pasquale III, e dai vescovi della sua obbedienza e dell’obbedienza al suo successore, Callisto III, come fu il vescovo di Acqui, vincolato al marchese di Monferrato, Guglielmo il Vecchio, genero del Barbarossa. Ciò spiega la cautela con cui la nuova città dovette procedere per giungere alla propria strutturazione in sede ecclesiastica come plebs civitatis, mantenendo abbastanza a lungo ai propri abitanti le originarie dipendenze pievane o parrocchiali, per di più appartenenti a diocesi diverse.

I nuovi cittadini cercarono dunque, ab origine, di rimediare a tale situazione di molteplici carenze, mantenendo lo status giuridico dei luoghi di provenienza, a seconda dei singoli gruppi, sia dal punto di vista del governo comunistico civile sia soprattutto sotto l’aspetto della disciplina ecclesiastica. Ma tutto ciò costituiva motivo d’intrinseca debolezza; oltre tutto rendeva i nuovi cives, nonostante tale loro autoqualificazione, facile oggetto di contestazione da parte dei domini dei loro luoghi di provenienza o di origine dei loro maggiori. Gli Alessandrini se ne resero conto perfettamente. Così, per fare un esempio eloquente, ricordo il caso del marchese di Monferrato che ancora nel 1178 richiede, ed ottiene, dagl’interessati, il riconoscimento del suo diritto a ricevere il giuramento di fedeltà da parte dei provenienti da Gamondio, Marengo e Foro.

Se, per mancanza di legalità della fondazione civica, nascevano problemi difficili e complessi nella rete dei rapporti feudali ed intercomunali, relativi alla terra ed agli uomini, problemi altrettanto sottili si presentavano dunque nei riguardi delle strutture ecclesiastiche, anche soltanto per l’amministrazione dei sacramenti e il pagamento delle decime. Oltre tutto nell’area alessandrina confluivano i limiti di cinque diocesi, ciascuna delle quali vantava una solida tradizione: Milano, Pavia, Tortona, Asti, Acqui. Inoltre, come già detto, avevano, nel territorio, possessi, terre, diritti anche enti religiosi di grande rilievo, come soprattutto San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia.

Non è facile stabilire con esattezza a quale diocesi appartenesse ciascuno dei luoghi che concorsero alla fondazione di Alessandria. Ai dati incerti e talora contraddittori delle notizie, sino a noi pervenute, devono qualche volta aggiungersi le confusioni, nate dal fatto di non avere mai tenuto bene distinti, da un lato, le giurisdizioni diocesane, dall’altro il possesso patrimoniale che non sempre coincide con le prime, sicché può accadere che, nella complessa struttura del mondo medievale, una chiesa o addirittura una pieve sia ubicata nell’area di una diocesi, dal cui vescovo dipende sotto il profilo disciplinare, mentre essa rientra, dal punto di vista della proprietà patrimoniale, in un altro episcopato (da non confondersi in questo caso con la diocesi), o in un monastero o altro ente religioso, situato in altra diocesi.

Comunque, dei luoghi, che concorsero originariamente alla fondazione della nuova città, si ritiene con sufficiente certezza, come già detto, che Rovereto appartenesse alla diocesi di Pavia; Bergoglio a quella di Milano; Gamondio e Marengo a quella di Tortona. Quanto alle località, da cui provennero gli altri o successivi immigrati, della pieve di Quargnento, di Solero e della pieve di Oviglio, appartenevano alla diocesi di Asti; Villa del Foro a quella di Acqui. Nei due poli, tra cui si espanse la nova civitas (quello di Rovereto-Palea e quello di Bergoglio), preesistevano edifici religiosi. A Rovereto c’era la chiesa di Santa Maria, detta poi di Santa Maria di Castello, con funzione pievana: non sappiamo se per esistenza di una vera e propria antica pieve con proprio piviere oppure perché si trattava di un’antica curtis regia la cui cappella assunse ad un certo momento funzione parrocchiale.

Nel medesimo territorio di Rovereto è attestata nel 1119 l’esistenza della chiesa di Sant’Andrea. In Bergoglio preesistevano alla nascita di Alessandria la chiesa di Santo Stefano ed il monastero di San Pietro: l’una e l’altro confermati da papa Alessandro III all’arcivescovo di Milano nel 1162. Soprattutto fu largamente diffusa nell’area, che costituì poi l’episcopato di Alessandria, la presenza del monachesimo benedettino, che concorse a svolgere opera preparatoria per la successiva sistemazione della zona.