Contesto storico


Geo Pistarino - La doppia fondazione di Alessandria (1168 – 1183)

Contesto storico

T

ra l’888 e 1’890 – forse intorno all’889 – un gruppo di saraceni ispanici, a cui forse si erano uniti o si unirono furfanti ed avventurieri di ogni specie, sbarcò a Frassineto, in Provenza, nel golfo di Saint-Tropez, dove quel castrum di La Garde-Freinet divenne una loro roccaforte. Non è dato sapere quanti fossero, né di dove esattamente venissero. Ci si domanda se il loro sbarco fu un avvenimento casuale, per esempio per motivo di una tempesta, oppure se rispose ad un disegno premeditato, diretto a trasformare il Tirreno in un mare totalmente islamico, come prosecuzione della Spagna musulmana e parte di un progetto per includere l’intera Europa sotto la bandiera della Mezzaluna, già issata nella penisola iberica e, con manovra a tenaglia, nella pianura russa.

Nel 934 una flotta fatimita, sotto il comando dell’ammiraglio Saflan o Jakub-ibn-Ishak, saccheggiò Genova, forse seguita da una nuova spedizione nel 935 (o forse vi furono soltanto o l’una o l’altra), mentre i saraceni di Frassineto devastano le vallate di Albenga e di Savona. Azioni isolate o collegamenti operativi tra i musulmani d’Africa e quelli di Spagna? Non si sa.

Nel 935-936 altri musulmani, guidati da Sagittus, sbarcarono sulla costa ligure: non si riesce a risalire più esattamente né dove né quando. Valicarono l’Appennino; Acqui conobbe la loro presenza, certamente devastatrice, per lo meno nel territorio circostante alla città. Gli invasori subirono una sanguinosa sconfitta: «Aquas, usque pervenerant. Horum provolos, id est praedux, Sagittus Saracenus, pessimus impiusque, extiterat: Deo tamen propitio, pugna commissa, telépotos, id est miser, ipse curo omnibus suis interiit».

Il fatto d’arme, ad Acqui nel 935-936 rappresentò una prima risposta all’aggressione musulmana addirittura nell’interno della val Padana. Si propende cioè a credere che la vittoria cristiana ad Acqui abbia avuto un’importanza maggiore di quanto si presumesse: probabilmente mandò a vuoto uno dei pericolosi sondaggi aggressivi, messi in atto dall’apparato attestato a Frassineto, come punta avanzata, forse, del califfato ispanico.

Il pericolo saraceno tuttavia sovrastò ancora a lungo nell’Italia del nord dopo la battaglia di Acqui, minacciando non soltanto dal mare, ma anche dai presidi musulmani impiantati nelle Alpi Marittime, Cozie, e Graie, nelle Pennine, nel territorio dei Vallesani, nella Svizzera, nella Rezia. Le terre dell’astigiano subirono razzie: altrettanto la diocesi di Alba. Queste bande di predoni, che percorrono la Liguria ed il Piemonte nel secolo X, non sono formate soltanto da musulmani: a loro andavano spesso uniti o si sostituivano dei pravi homines, di origine cristiana.

La cacciata dei Saraceni da Frassineto, che si colloca, secondo le ipotesi più verosimili, tra il 972 ed il 975, per opera del conte Guglielmo d’Arles, collegato con la minore nobiltà di Provenza e di Liguria, segna in modo non solo emblematico la fine del predominio islamico sul Mare Tirreno, l’inizio dell’espansione di Genova nel Mediterraneo fino al Nord-Africa ed alla Terra Santa, la possibilità di ripresa, economico-sociale, culturale ed istituzionale, del territorio ligure-piemontese e, in esso, la ristrutturazione della diocesi d’Acqui, e la premessa alla formazione del marchesato di Monferrato entro l’ambito della marca aleramica.

Fino a quasi tutto il X secolo Genova è rimasta estranea, per quanto le fonti narrano, al commercio tra l’Europa continentale ed il mondo islamico, al quale fanno invece da tramite, da un lato, Venezia e, dall’altro, i porti della Spagna musulmana: Tortona, Valencia, Almeria.

Nel 951 Ottone I di Sassonia viene coronato re d’Italia a Pavia; nel 961 egli restaura il Sacro Romano Impero, facendo della Germania il pilastro della nuova Europa.

Ma l’alto medioevo, e più specificamente il X secolo, hanno lasciato un’eredità sul territorio: pesante sotto ogni aspetto. È un panorama desolato: antichi centri civici, taluni addirittura pre-romani e di etnia ligure, come Caristum sono scomparsi senza lasciare traccia; altri, come Libarna, stanno morendo; altri ancora, come Foro (Forum Fulvii), si sono ridotti a vici, anzi a villaggi. Abbazie distrutte, come quella di Giusvalla; pievi finite nel nulla, ed oggi non identificabili, come quella di Osima; strade romane spezzettate in tronconi e ridotte qua e là a sentieri campestri, come la via Æmilia; antichi ponti crollati e solo in parte rifatti o sostituiti come quello di Campo (Ligure), punteggiano il panorama. E l’immensa distesa del bosco, frammezzato da paludi, ricopre la massima parte dello spazio, come il grande nemus da Savona al Tanaro, oggi superstite nella modesta Fraschetta alessandrina.

Un medesimo prospetto di scadimento grava sul quadro umano. Al decremento culturale è unito lo scadimento del tono della vita civile. Il limes bizantino-longobardo sulla linea dell’Appennino, seppure superato, all’epoca di Rotati, con la conquista longobarda della Liguria, ha lasciato tracce perduranti nelle diverse professioni di legge, che frazionano la società: in maggiore frequenza nelle dichiarazioni germaniche, a settentrione; romane, ancora numerose, a mezzogiorno.

Nel disordine istituzionale l’incertezza del diritto è diventata un dato pressoché permanente, mentre si sono complicate oltre misura le cavillosità delle imposizioni feudali, personali, spesso non codificate. La contrazione demografica, accentuata dagli ideali religiosi e dalle differenti professioni di culto, dalle fratture giuridiche nelle professioni di legge e dalle non sopite diversità linguistiche, hanno raggiunto il massimo livello, secondo che dimostrano le dimensioni modeste, talora modestissime, delle vetuste chiese superstiti, come la cripta dell’abbazia di santa Giustina di Sezzadio. Unico centro cittadino, attivo nel quotidiano, è rimasta la sede vescovile di Acqui: città modesta per un’area diocesana molto vasta e troppo disarticolata, rispetto alle dimensioni e strutture della stessa città, nonostante i numerosi rapporti stradali, però non sempre agevoli, con le circostanti, ma bene distinte sedi episcopali di Tortona, Asti, Savona e Genova.

Una ripresa faticosa, quella del XI secolo, in sede civile come in sede religiosa. Anche se la marca aleramica, istituita nel 950-51 da Berengario II e Adalberto, re d’Italia, e, in essa, la diocesi di Acqui, sotto la guida dei vescovi Primo (989-1018), Dudone (1023-1033), Guido (1034-1070), favorirono, stimolarono, incrementarono la rinascita dell’attività economica, sociale, religiosa, istituzionale del territorio. E le fondazioni di chiese e monasteri, come san Quintino di Spigno (991) e santa Giustina di Sezzadio (1030), rafforzarono la ricostruzione delle strutture dell’area acquese in senso lato. È soprattutto da Pavia e da Genova, tra la fine del X secolo e la prima metà del XII, che si irradiano le spinte innovatrici dell’azione benedettina lungo il corso del Tanaro, il medio e basso corso della Scrivia, dell’Orba, della Bormida nelle filiali ecclesiastiche dei grandi monasteri, san Salvatore, san Siro e santo Stefano di Genova. Con abile iniziativa politico militare la stessa Repubblica genovese nel 1121 valica la linea degli Appennini, per puntare su Milano lungo il percorso di Tortona e Pavia: occupa a mano armata Fiaccane, Glapinum, Mundascum, Pietrabissara, conduce una spedizione contro il castello di Montaldo, a sud di Arquata, nel 1128; stringe un patto con Pavia nel 1130, in evidente contrapposizione a Tortona, che può bloccare in qualunque momento la via di Pavia e Milano sul nodo di Serravalle.

Per Genova assicurarsi il tragitto per Milano, evitando ogni eventuale sbarramento da parte di Tortona, diventa un’esigenza tanto più urgente quanto più i commerci con la capitale lombarda si intensificano nel primo tempo del XII secolo. La presenza e la pressione genovese sull’area oggi alessandrina si fanno progressivamente più intense proponendo, con questo fatto medesimo, l’esigenza storica, direi ineluttabile, della costituzione di un nuovo centro demico che funga da caposaldo nella ristrutturazione dell’area di transito alla confluenza tra la Bormida e il Tanaro. Alcuni eventi sono sintomatici nella loro consequenzialità. Nel 1130 la Repubblica riduce all’obbedienza il marchese di Gavi e stipula un trattato con Pavia (la coincidenza cronologica non è forse casuale) per la tutela, fra l’altro, della strada di Gavi. Risultato: nel 1135 Novi, già vincolata a Tortona, si mette a disposizione di Genova e di Pavia, insieme collegate.

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